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Sake tipologie e tutto quello che c’è da sapere sul fermentato giapponese

“Anche il sake, come noi esseri umani, non diventa buono se non lo curi”. Parola del fumettista Jirō Taniguchi (uno davvero bravo), che riassume alla perfezione la meticolosità e il riguardo necessari a ottenere una bevanda di qualità.

Cos’è il sake

Il sake non è un distillato né un liquore. Capita che lo si definisca “vino di riso”: tecnicamente non è nemmeno vino. La sua è una tipologia a parte. Volendo tentare un collegamento con qualcosa che conosciamo meglio, qui in Occidente, possiamo dire che il processo di produzione è simile a quello della birra.

Il sake è una bevanda alcolica ottenuta grazie a un processo di fermentazione dell’amido di riso. Serve un tipo particolare di cereale, quello che in Giappone chiamano sakamai e che è distinto dal hanmai (il normale riso da tavola). In breve, il sakamai ha chicchi più grandi e contiene meno proteine e lipidi rispetto allo hanmai.

Come si produce il sake

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Senza entrare troppo nel tecnico, la produzione del sake inizia levigando i chicchi di riso (ci torneremo nel paragrafo successivo). Il secondo passaggio è lavarli e lasciarli in ammollo, così che assorbano acqua. Segue la cottura al vapore.

La fermentazione è possibile grazie all’aggiunta di spore di koji (che trasformano l’amido in zuccheri) e di lievito (che, in coppia con gli zuccheri, produce la fermentazione). Dopo 15-30 giorni siamo pronti per una seconda fermentazione, che dura 3-4 settimane.

Seguono pressatura e filtraggio, in alcuni casi anche pastorizzazione. Poi aggiunta di acqua o di alcol per regolare il volume alcolico. In ultimo, l’imbottigliamento.

Sake tipologie: il seimai buai

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Facciamo un passo indietro e torniamo all’inizio della lavorazione del sake. Abbiamo accennato alla levigazione dei chicchi: si tratta di un passaggio fondamentale, che determina il cosiddetto seimai buai. Cioè la percentuale di riso bianco (il cuore) che rimane dopo che la superficie è stata rimossa.

La logica è portare a fermentazione la parte del chicco più ricca di amido: gli strati esterni apportano soprattutto proteine e lipidi, che non concorrono all’aroma finale del sake (o addirittura lo danneggiano).

Il seimai buai indica, in percentuale, la quantità di un chicco che rimane dopo la levigatura. Più è bassa, maggiore sarà il contributo del cuore al risultato finale e dunque la qualità complessiva del sake.

Sake tipologie differenti

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Qui le cose si complicano un po’. Iniziamo con una prima distinzione, quella tra Futsū-shu e Tokutei meishō-shu. Il primo termine si riferisce al sake normale, quello da tutti i giorni. Il secondo identifica il sake per le occasioni speciali, che rappresenta circa il 40% della produzione.

Il sake Tokutei meishō-shu è a sua volta distinto in otto categorie, a seconda del seimai buai e della quantità di alcol aggiunta dopo la pressatura e il filtraggio – che comunque non sarà superiore al 10% del peso del riso, mentre nel caso del Futsū-shu si può raggiungere il 50%.

Rapidamente, ecco le otto tipologie del sake per i momenti importanti:

  • Junmai Daiginjō-shu: niente alcol aggiunto, seimai buai 50% o meno
  • Daiginjō-shu: alcol aggiunto, seimai buai 50% o meno
  • Junmai Ginjō-shu: niente alcol, seimai buai 60% o meno
  • Ginjō-shu: alcol, seimai buai 60% o meno
  • Tokubetsu Junmai-shu: niente alcol, seimai buai 60% o meno, lavorazione particolare, che dev’essere specificata in etichetta
  • Tokubetsu Honjōzō-shu: alcol aggiunto, seimai buai 60% o meno e anche in questo caso lavorazione speciale
  • Junmai-shu: niente alcol e nessuna indicazione rispetto al seimai buai
  • Honjōzō-sh: alcol aggiunto e seimai buai 70% o meno

Come si usa in mixology

Tutto questo per dire che esistono moltissimi sake e di conseguenza una quantità di aromi differenti. Una sfida, per chi volesse utilizzarlo come ingrediente di un cocktail e che dovrà esplorare per bene le vastità di questa tradizione nipponica. Del resto, analogo impegno è richiesto per il whisky o il rum, che non sono certo da meno in termini di varietà. Quindi, ai bartender non resta che rimboccarsi le maniche.

Per loro fortuna esistono drink collaudati, e di conseguenza una bussola per muoversi. Abbiamo ad esempio il Wasabi Mary, twist del Bloody Mary con il sake al posto della vodka e il wasabi come aggiunta energetica. Oppure il Sake Martini, anch’esso variazione di un classico e fatto con sake e vermouth secco. Ultima suggestione, il Coco Geisha: si prepara con single malt giapponese, sake, acqua di cocco, sciroppo di zucchero e orange bitter.