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I distillati senza nome italiani raccontano segreti a ogni sorso

La distillazione è, da sempre, un atto di esplorazione. Inserire una materia vegetale in un alambicco significa aprire una porta su mondi aromatici nuovi, sorprendenti e spesso inaspettati. Ogni pianta reagisce in modo diverso a calore, fermentazione e vapore: ogni esperimento è una possibilità, ogni risultato un piccolo segreto rivelato.

Eppure, accanto a questa vocazione creativa, esiste una tendenza opposta, profondamente umana: quella di ordinare, classificare, mettere tutto in categorie. È così che, nel tempo, sono stati dati dei nomi ai distillati (vodka, rum, gin) e territori d’origine ad altri (cognac, tequila) fissando regole, confini e disciplinari.

I distillati senza nome che sfuggono alle regole

Oggi, il mondo degli spiriti è regolato da normative europee e internazionali che stabiliscono cosa un distillato può essere, come deve essere fatto, e soprattutto come può essere chiamato. Ai margini di queste definizioni ufficiali, sopravvive e si sviluppa una scena viva, audace, spesso invisibile. In Italia, in particolare, si sta formando un piccolo universo parallelo fatto di distillati senza nome, fuori norma, segreti per chi ha voglia di ascoltarli. Prodotti legali, ma non classificabili. Spiriti che non si possono raccontare con un’etichetta, ma solo con un assaggio.

La grappa non grappa

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Come i primi Supertuscan nel vino, nati negli anni ’70 fuori dai disciplinari DOC e poi divenuti icone, anche questi spirits chiedono oggi attenzione e meritano di essere scoperti. In Veneto esiste un distillato che ha tutte le carte in regola per essere una grappa: nasce da vinacce, viene prodotto artigianalmente con cura estrema nella separazione delle teste e delle code, ed è il frutto di una tradizione familiare centenaria. Ma non può legalmente chiamarsi così.

Il motivo? Le vinacce utilizzate provengono da vitigni ibridi americani, Vitis labrusca, riparia e altri incroci, introdotti in Italia a fine Ottocento per fronteggiare la crisi della fillossera. Coltivate per generazioni nelle campagne contadine, queste uve sono vietate dal 1936, non si possono quindi vinificare, né commercializzare. E poiché la grappa, per legge, deve derivare da vinacce di Vitis vinifera, anche il distillato che ne deriva resta fuori norma. Poco importa che sia privo di metanolo, sicuro e di grande qualità: non ha diritto al nome. Il produttore ha scelto allora un’altra strada, rinunciando all’etichetta ufficiale per rivendicare apertamente l’origine contadina del suo spirito. Una forma di disobbedienza civile liquida, che restituisce il sapore perduto delle grappe di una volta, quelle che bevevano i bisnonni.

Il coraggio dei distillati senza nome

E allo stesso tempo solleva una domanda: è giusto sacrificare la memoria di un gusto, solo perché la legge non lo riconosce più? Altri segreti arrivano dalla Sicilia, terra antichissima ma sorprendentemente fertile quando si parla di innovazione liquida. Qui, da qualche tempo, non si distilla il frutto, ma le pale verdi del fico d’India, normalmente usate come foraggio o compost.

Fermentate e distillate, danno vita a uno spirito secco, vegetale, con note balsamiche e saline: un sorso che profuma di vento e di pietra, di terra bruciata dal sole. Non essendo ottenuto da cereali, vinacce, uva né bacche di ginepro, questo distillato non rientra in alcuna categoria ufficiale. Eppure, strizza l’occhio al mondo dell’agave, ricordando in modo indiretto e spontaneo certi mezcal artigianali. È uno spirito senza nome, che nasce dalla volontà di valorizzare una risorsa spontanea del territorio in chiave contemporanea. Prodotto di ricerca, di intuizione, ma anche di coraggio.

Il mondo dei distillati aromatizzati

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Anche il gin, forse il distillato più sperimentato del nostro tempo, sta vivendo un momento di trasformazione. Secondo il Regolamento UE 2019/787, un distillato può chiamarsi “gin” solo se è aromatizzato principalmente con bacche di ginepro (Juniperus communis), ha almeno 37,5% vol. e presenta il ginepro come gusto predominante. Ma diversi produttori italiani stanno percorrendo un’altra strada.

Hanno ridotto il ruolo del ginepro a favore di botaniche locali e riconoscibili: rosmarino, origano, pino mugo, agrumi, fiori spontanei. Nascono così distillati che sanno di montagna, di giardino mediterraneo, di bosco. Tecnica da gin, ma spirito altro. Legalmente sono “distillati aromatizzati”, ma chi li produce preferisce definirli botanical spirits. Nomi alternativi per spiriti alternativi. Il pubblico li beve come gin. I bartender li usano come gin. Ma sono qualcosa di diverso: più morbidi, più beverini e meno alcolici.

Distillati per la miscelazione leggera

Anche qui la Sicilia fa scuola, alcuni produttori stanno distillando agave in stile mezcal, ma arricchendola con botaniche mediterranee e insulari. Il risultato è un ibrido profumato e potente, che non vuole – e non può – essere definito gin. E proprio per questo trova il suo posto tra i segreti più affascinanti del nuovo panorama italiano. E poi ci sono i distillati che il ginepro lo mantengono al centro, ma si fermano sotto la soglia dei 37,5% vol. richiesta per essere legalmente definiti gin.

Si tratta spesso di prodotti pensati per la miscelazione leggera, serviti con acqua tonica o soda, come alternativa più sobria al classico Gin Tonic. Alcuni sono veri e propri distillati botanici con profilo aromatico raffinato. Altri ricordano infusi secchi, senza zuccheri né fortificazioni, quasi a metà strada tra un vermouth secco e un gin in miniatura. Tutti però condividono una missione: offrire sapori intensi senza chiedere troppo in termini alcolici. Per la legge non sono gin ma per chi li sceglie, sono un modo nuovo di bere. In un’epoca dominata dai disciplinari e dalle categorie, questi distillati rappresentano una via alternativa, parallela, quasi clandestina.

Segreti riservati ai più curiosi

Gli spiriti segreti non si lasciano definire, custodiscono storie minori e parlano un linguaggio personale che si rivolge a chi ha voglia di ascoltare. Sono segreti ben custoditi nelle botti di piccoli produttori, nei banchi dei cocktail bar più curiosi, tra le etichette di chi lavora in silenzio fuori dai riflettori. Ma il loro tempo potrebbe essere arrivato. Perché forse è proprio da ciò che oggi non ha nome che nasceranno le categorie del futuro.

Tratto dal magazine cartaceo di Coqtail – for fine drinkers. Ordinalo qui 

Immagini credits Julie Couder, location Mag La Pusterla