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Maurizio Stocchetto: così al Bar Basso è nato il Negroni Sbagliato

«Da ieri a oggi non è cambiato molto. Il principio resta sempre lo stesso: l’aperitivo è lo spazio temporale che va dal momento in cui si esce dal lavoro a quello in cui si riprende la routine di casa. È un intervallo, un’occasione per socializzare e stare in compagnia. Oppure è una pausa introspettiva. Io l’aperitivo lo faccio volentieri da solo», racconta Maurizio Stocchetto. «Mi serve per pensare e riflettere. Tutto dipende dalle circostanze. Così come dipende dall’umore cosa ordinare da bere: una coppa di champagne o un Martini cocktail.  Accompagnato da qualcosa che non vada a sostituire la cena. Olive, salatini, qualche appetizer. Come i nostri, messi a segno dallo chef Fabio Petrella. Rimane il fatto che l’aperitivo sia un piccolo regalo, anche terapeutico. E poi è sinonimo di informalità: se sono in gruppo, posso arrivare dopo e andare via prima, senza che nessuno si scomponga. Noi, per esempio, incentiviamo la casualità, tenendo pochi tavoli prenotati. Il bar deve restare un luogo prendi e fuggi».

La nascita del Bar Basso

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Maurizio Stocchetto ha tracciato la sinossi di un rituale che a Milano ha trovato terreno fertile proprio all’ombra di un tendone rosso: il Bar Basso. In una via Plinio che, come Mosè, apre il flusso su via Enrico Nöe. Un locale iconico, magnetico, ipnotico. Ora come allora. Quando, nel 1967, viene rilevato da Mirko, padre di Maurizio, col sodale Renato Haussmann. Direttamente da quel Giuseppe Basso che aveva aperto l’insegna nel 1933 in Porta Vigentina, per poi trasferirla in zona Lima, a guerra conclusa.

Non solo un cambio di proprietà, bensì una netta svolta, verso un attitude internazionale. Dalla matrice veneziana. Sì, perché il merito va al serenissimo Mirko: natali aggrappati alle briccole di Cannaregio, una carriera iniziata a sorreggere il cavalletto di un pittore claudicante, un passaggio fra le eleganti sale dell’Hotel Monaco & Grand Canal e l’amicizia, intrecciata all’Harry’s Bar, con Haussmann. Che lo invita a seguirlo a Cortina d’Ampezzo, nel neonato bar dell’Hotel de la Poste. Il resto è storia. Cesellata da serate dietro un bancone, al cospetto degli Agnelli e dei Fürstenberg, dei Marzotto e dei Barilla, di Liz Taylor e di Richard Burton. Di tutto il jet set. Felice di atterrare fra le Tofane, grazie a un piccolo aeroporto. «E se passi sei mesi a far drink a Ernest Hemingway qualcosa impari», spiega Maurizio.

L’estro di Mirko Stocchetto

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Mirko osserva, ascolta, chiacchiera, incrocia sguardi, respira atmosfere, affina la sensibilità e mette tutto in valigia. Aprendo il bagaglio a Milano. Quella dinamica degli ultimi Sixties. «Era il tempo del boom economico, delle minigonne, degli hippy e dei capelli lunghi. Erano anni stravaganti. Il mondo da bianco e nero stava diventando in technicolor», racconta Maurizio. E Mirko – che nel 1952 entra a far parte di una giovane Aibes, con la tessera numero 50 – colora le giornate e le serate milanesi con i suoi cocktail e la sua verve.

«Papà ha creato molti drink, anche perché allora vi era molto più raggio d’azione». Nascono così il Perseghetto (rilettura del Bellini con vodka, pesca e prosecco), il Rossini (combo chic di fragole e champagne), il Mangia e Bevi (gelato alla crema e alla nocciola, liquore allo zabaione, cherry brandy, cioccolato e fragole).

La nascita del mitico Negroni Sbagliato

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Il Bicchierone per il servizio del Negroni Sbagliato

Nasce anche il mitico Negroni Sbagliato. «Che se l’avesse chiamato Maurizio non avrebbe avuto successo. Invece Sbagliato è divertente e intrigante. Che poi non lo abbiamo mai spinto più di tanto. Lui è andato avanti con le sue gambe. Quel che è certo è che lo Sbagliato ci ha posizionato definitivamente sulla mappa», confessa Stocchetto junior. Fiero di rammentare l’errore fatale, anno Domini 1972. «Papà era al bancone, con a disposizione il pozzetto refrigerato. Dentro: nove bottiglie. A fianco: gin, vodka e spumante. Davanti: un cliente ad attendere il suo Negroni. Prende il bicchiere, mette ghiaccio e fetta d’arancia, versa Campari e vermouth rosso e crede di prendere il gin. Invece? Qualcuno aveva spostato la bottiglia. Se ne accorge, ma intuisce quanto sia antipatico fermarsi.

Procede, sussurrando all’ospite che quella sera di primavera avrebbe fatto una versione più morbida e leggera del Negroni. Del resto, lui era abituato a servire alle madame cocktail più delicati, a base spumante. Così lo Sbagliato è nato, è scoppiato e oggi naviga sui social. Lo ordinano addirittura molto più di allora», afferma Maurizio Stocchetto. Che intorno al Duemila ne ha registrato il marchio, contribuendo alla sua notorietà. «Vogliamo che resti tale, che non venga volgarizzato, che non diventi un ready to drink. Invece ci fa piacere che sia replicato da altri. Significa che ha valore».

A ogni cocktail il suo bicchiere

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Sguardo vispo, cuore saggio e mente acuta Maurizio Stocchetto. Che dagli anni Ottanta tiene saldo il timone del Bar Basso, portandolo sempre più in alto. Complici un’innata curiosità e i viaggi in California sul finir dei Seventies. «Perché volevo vedere dove andavano, cosa bevevano e ascoltavano i giovani americani. Che sorseggiavano cocktail persino a mezzodì». Ma sono pure gli anni in cui esplode il design. «Qui veniva un amico come James Irvine e con lui Stefano Giovannoni. Si è presto creato un movimento. Mi hanno portato la crème della crème», racconta. Indicando un’istallazione luminosa della collezione Myriad, in vetro soffiato e rame satinato, realizzata dal lighting designer Gabriel Scott per il Fuorisalone 2018 e lasciata in comodato d’uso. Un twist contemporaneo su un ambiente vintage, in cui il legno bisbiglia a vecchie fotografie, lampadari in cristallo e pareti rosa antico.

«È la nostra identità. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Perché se è vero che il cocktail è urbano, frivolo e superfluo, è vero anche che non è mai banale. Lui ha bisogno di un contesto, di storie, di atmosfere». E ha pure necessità di un bicchiere. «Ne abbiamo di piccoli e grandi. In sei sette tipologie, disegnati da mio padre quando a Milano non c’erano ancora quelli dedicati ai drink. Il nostro bicchierone è alto 30 centimetri ed è esposto al Museo del Design Italiano in Triennale».

Tratto dal magazine cartaceo di Coqtail – for fine drinkers. Ordinalo qui

Immagini credits Julie Couder x Coqtail, riproduzione vietata