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Okolehao, lo spirito delle Hawaii

Nessuno conosce davvero il sapore originale dell’Okolehao: un dettaglio che la dice lunga sulla sua complicata storia. Però questo distillato hawaiano esiste, sta conoscendo una certa fortuna (per quanto di nicchia) e dunque vale la pena parlarne. Partiamo dalle coordinate di base, spiegando cos’è, e alla fine arriviamo all’uso nei cocktail.

Cos’è l’Okolehao

L’Okolehao è uno spirito che nasce dalla fermentazione e distillazione della radice di Cordyline Fruiticosa: nome tecnico di quella che viene comunemente chiamata Ti plant. È una pianta endemica del Pacifico meridionale, che ha incontrato anche nelle Hawaii il clima adatto a prosperare.

Se torniamo molto indietro nel tempo, troviamo una situazione comune a molte realtà preindustriali. La popolazione indigena aveva un forte legame con la natura che la circondava, e alberi e arbusti erano impiegati nei modi più disparati. La Ti plant forniva materia prima per costruire canoe, abitazioni, vestiti.

Dalla sua radice fermentata si ricavava una sorta di birra, che in un secondo momento diventerà l’Okolehao. Qui però urge un chiarimento.

La storia dell’Okolehao

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Le fonti non concordano sull’esatta origine della birra di Ti plant. C’è chi dice fosse comune tra i nativi hawaiani e chi invece sostiene sia nata per mano dell’inglese Nathaniel Portlock, ex membro della ciurma del capitano James Cook. Promosso al comando di un veliero, Portlock fu messo di fronte a un problema comune fra i suoi pari grado: prevenire lo scorbuto tra i marinai una volta terminati i distillati imbarcati in madre patria. Secondo questa versione, trovò la soluzione cuocendo e fermentando la radice di Ti plant.

Sul passaggio dalla birra al distillato non ci sono dubbi: fu opera di William Stevenson, detenuto evaso da una prigione australiana, imbarcatosi clandestino su una nave di passaggio e approdato alle Hawaii. Fu lui a utilizzare due grandi pentole di ferro di una baleniera per distillare la radice di Ti plant. Siamo intorno all’anno 1790. La veridicità di questo resoconto è confermata dal nome Okolehao. Nasce dal fatto che le due pentole in questione ricordavano agli hawaiani il sedere di una persona. Nella loro lingua, la parola ‘ōkole significa sedere mentre hao significa ferro.

La ricetta originale si perde nel tempo

Nella seconda metà del XVIII secolo nessuno si preoccupò di stabilire un metodo univoco di produzione dell’Okolehao. Tanto meno di pensare a un disciplinare. Così la ricetta originale andò incontro a una serie di cambiamenti. Fu per esempio aggiunto lo zucchero di canna e poi anche l’ananas, quando la coltivazione di questa pianta fu introdotta nell’isola. E quando gli immigrati cinesi e giapponesi portarono con loro il riso, pure quest’ultimo divenne un ingrediente della distillazione. In alcuni rari casi fu anche adottato un passaggio in botti di legno. All’inizio della seconda guerra mondiale le ricette si sprecavano e pochi ricordavano com’era fatto e di cosa sapeva l’originale Okolehao.

Declino…

Questa incertezza provocò una produzione confusa, priva di una chiara identità: caratteristica che non fece bene agli affari. La concorrenza di rum e vodka fornì un ulteriore colpo alle già scarse fortune dell’Okolehao. Così, a metà del XX secolo iniziò un inesorabile declino che portò alla chiusura delle principali distillerie.

La fortuna della tiki culture non aiutò. Certo, i turisti statunitensi invasero le Hawaii affascinati dalle bevande esotiche. Ma il grosso dell’Okolehao che trovavano in loco aveva poco a che vedere con quello d’un tempo.

Molti storici sostengono che si trattasse più che altro di un intruglio pensato per sbronzare i turisti, piuttosto che iniziarli alla tradizione. Un torcibudella paragonabile a un bourbon o a un rum di scarsa qualità, ma niente più di questo.

… e rinascita

Tutto cambia nei primi anni Duemila, quando alcuni produttori hawaiani decidono di restituire dignità all’Okolehao. Fra di essi si segnalano Island Distillers (con sede a Honolulu) e Hanalei Spirits (sull’isola di Kauai). C’è però un problema: nessuna ricetta del XVIII secolo è sopravvissuta. Restano comunque fonti storiche tangenziali, e fra mille difficoltà si riesce a ricostruire quello che doveva essere il gusto originale.

Dave Flintstone, proprietario di Island Distillers, sostiene che la sua versione è la più vicina possibile a quella del 1792, fatto salvo che all’epoca “era più aspra e bizzarra a causa della rudimentale attrezzatura utilizzata”. Così l’Okolehao di qualità torna sul mercato, per quanto disponibile in un numero limitato di bottiglie. Non fa invecchiamento in botte, è morbido, ha note minerali e vegetali, sentori di banana e ananas, e un non so ché di tropicale.

L’uso in mixology

La scarsa distribuzione internazionale fa sì che il grosso dei cocktail a base di Okolehao si trovi nei bar delle Hawaii, all’interno di ricette localissime. Fra le altre ricordiamo il Lei Day (con crema di menta e assenzio) e il Bee’s Sting (twist del Bee’s Knees con l’Omolehao al posto del gin).