Raramente accade di mangiare la musica, mentre si ascolta un piatto, si tocca un colore, si osserva un suono e si annusa un ricordo. Ma quando succede è pura magia e inattesa sinestesia. I sensi si intrecciano, si contaminano e si sovrappongono, dando origine a un sentimento superiore, che non è somma, ma sublimazione.
Una sensazione di immersione inebriante e totalizzante è quella da vivere in un sofisticato hi-fi bar & dining di recente gemmazione come Mogo, fecondato nel milanese quartiere Isola grazie all’incontro virtuoso di persone che «spinte da profonda umanità, si sono prese la mano per portare avanti un progetto», spiega Morris Maramaldi, l’eclettico bartender che non solo firma alcuni signature dell’insegna, ma che è pure amico di Marco Sala, ceo e founder di un brand musicale made in Italy come Polifonic. Colui che – insieme all’attuale general manager Matteo Larghi – ha messo la puntina sulla i, dando inizio all’avventura corale e collettiva. Che vede coinvolti anche una piattaforma creativa come Burro Studio, nonché lo chef Yoji Tokuyoshi e la sodale Alice Yamada.
Mogo, un luogo di unione e aggregazione

Non a caso Mogo prende spunto dal termine sudafricano mmogo, che in lingua sotho significa insieme, unione, aggregazione, comunione. Concetti esplorati e indagati in tutte le possibili accezioni. A partire dalla progettazione dello spazio: fluido, inclusivo, interattivo, morbido, libero, senza barriere e senza spigoli. Feng shui per dirla alla nipponica maniera. Un luogo in cui tutto scorre e in cui la solidità della materia si fonde con le alte frequenze dell’immaginario: cemento e aria, legno e luce, acciaio e velluto, tessuti grezzi e carta washi, chiaro e scuro, estro e geometria, liscio e ruvido, pop e top (visto che non manca una terrazza sul tetto).
Il mood positivo del listening bar

Un ambiente fluttuante – ispirato ai jazz kissa giapponesi – porta la cifra stilistica dello studio di Giorgia Longoni, combinando estetica ed etica, parlando un linguaggio multiculturale e tenendo un tone of voice naturale. Cui concorre una palette di colori che va dal terracotta all’acquamarina, passando per il verde muschio di una saletta da abitare stando scalzi.

Mentre gli arazzi site-specific dell’artista Andrea Marco Corvino (cresciuto fra Bologna e Johannesburg) animano le pareti, dispensando vibe tribali, i tavoli presidiano le linee perimetrali, il bancone bar domina la scena e il dj booth spicca come un cameo fra nicchie colme di vinili, un impianto hi-fi artigianale (capace di assicurare un’esperienza sonora ad altissima fedeltà) e un soffitto luminoso pronto a cambiare tonalità col passare delle ore, facendosi ambrato e aranciato sul far della sera – quando la consolle diviene il regno di artisti italiani e internazionali, grazie alla curatela firmata da Polifonic e BSR, etichetta indipendente e ramo musicale di Burro Studio. Per vibrazioni jazz, soul, ambient, techno ed electro.
Sound da mangiare

«Io e Alice viaggiamo spesso e già due anni fa avevamo captato l’arrivo in Italia dei listening bar. Così, quando ci hanno fatto la proposta, abbiamo esclamato: perfetto!», svela Yoji, già al timone di Bentoteca, Katsusanderia, Pan, Piccolo Pan e Alter Ego (in quel di Tokyo). «Ho cercato di studiare piatti semplici, in linea con il mood di Mogo. Piatti da condividere, da assaporare insieme, in compagnia, mentre si ascolta il sound. Piatti da consumare con forchetta e coltello, ma pure con le bacchette o con le mani. Il tutto dando forma a una cucina che non fosse troppo giapponese, troppo italiana o troppo francese, ma in grado di attraversare le culture.
Un po’ come fa la musica. Sempre selezionando materie prime di qualità, provenienti dai miei fornitori di fiducia. Invece tutti i panificati giungono dal lab di Pan», spiega Tokuyoshi. Che ha affidato a Simone Montanaro i fornelli del locale. Dove il listening si accorda con il dining, ritmato da coscia di pollo (dell’azienda agricola vercellese Moncucco) marinata nel miso e salsa teriyaki, hummus di ceci con verdure, focaccia di shokupan con wasabi e alici di Cetara, e asparagi con tofu e sesamo. Non tradendo lunch e brunch (nel fine settimana).
I signature cocktail di Mogo

«Qui tutto invita all’armonia, alla calma. Persino le sedute sono ergonomiche, avvolgono e rilassano», precisa il barman Morris (nato in Camerun, da mamma camerunese e da padre italo martinicano). Che in sinergia col bar manager Filippo Comparini ha messo a segno una compilation di signature dalla dinamica attitude.
«Nella vita la musica mi ha sempre accompagnato. Ho studiato violino al conservatorio Vittadini di Pavia, per poi sposare il canto lirico. E ho iniziato a fare questo lavoro non in un bar, ma in un club urbano come il Dude. Quando creo un cocktail penso anzitutto al titolo e al refrain. Poi passo alla ricetta. Fra tutti, forse il più musicale e il più adatto al pairing è il Tokyo Dub. C’è dell’armonia fra elementi che corrono quasi lungo lo stesso asse geografico, più parallelo che meridiano. È un drink che unisce sake e tequila, Asia e America Centrale. Il tutto tenuto insieme da yuzu, menta e barbabietola, che riporta alla terra e al Commonwealth. La vaporizzazione finale di alloro inoltre evoca la rugiada, il suolo bagnato.
Gli oli essenziali mi accompagnano sempre, perché vanno a stimolare la memoria. Sul Martini Black Saffron, per esempio, spruzzo del cardamomo, che è la carezza speziata a un drink-tributo alla costruzione del Duomo, prezioso di gin al carbone vegetale, in onore dei carbonai, e vermouth allo zafferano, a ricordare l’oro delle vetrate», continua lui.
Drink da anime differenti

Fiero anche del Dark Funk, jam session – scura, ipnotica e magnetica – di rum bianco, zenzero, liquirizia e chinotto, da sorseggiare quando è già notte. Mentre l’Hi-Fi Monk svela il suo spirito mistico e ascetico, in equilibrio fra vodka al tè matcha e liquore francese, il Noir Interlude esprime la sua anima soul (e sour) in un mélange di assenzio, succo di lime e fernet alla lavanda (raccolta intorno al monte omonimo, nell’isola di Hokkaido). Il Cipango rende invece omaggio al Giappone, miscelando arancia amara, fetta di pera decana e un amaro giapponese. «La musica si ascolta meglio se il cocktail è buono. E se il cocktail è buono chi lo beve diviene più propenso alla socializzazione». Morris docet.
Tratto dal magazine cartaceo di Coqtail – for fine drinkers. Ordinalo qui
Immagini interni courtesy Mogo, cocktail, piatti e personaggi Julie Couder x Coqtail – riproduzione vietata